Confessioni

Le ho buttate stamattina. Le scarpe. Quelle. Stavano lí da un annetto, tira dentro e tira fuori, magari me le rimetto. E perché non te le metti?

Perché mi stanno piccole. Erano proprio un numero meno del mio. E me le sono comprate lo stesso, perché erano fiche, ce le avevano tutti ed ero convinta che avrebbero radicalmente cambiato il mio stile e la mia capacitá di affrontare la vita. E le volevo subito, non potevo attendere altre settimane di ricerca magari infruttuosa col rischio che poi non le ritrovo piú..il nuovo approccio alla vita mica puó attendere! e me le sono comprate, un palese numero in meno del mio, e me le sono pure messe per un bel po’. Stringevano, come no, ma erano fiche. Che poi col tempo si allargano, mi metto il calzino sottile e non stringo troppo i lacci, ci metto dentro un giornale cosi si fanno piú grandi. Macché. Stamattina ci ho riprovato, mi sono sentita imbecille e le ho buttate.

Pensate che non mi senta cretina? Certo. Mi facevano male i piedi? Si. Ma non sono mica nata perfetta, e se siamo in vena di confessioni una tira fuori i fatti imbarazzanti. Stamattina le ho tenute su per cinque minuti, ho riconosciuto il fastidio e le ho buttate, promettendomi che le prossime scarpe me le sarei comprate del mio numero.

Se ci volete vedere una qualsiasi metafora liberi di farlo, ma avete una mente fantasiosa.

Io parlavo di scarpe.

Vuoi che muoro?

A discapito del fatto che ho una laurea e che io abbia dedicato piú di dieci anni all’assurdo tentativo di riabilitare gambe fratturate e ottenere un contratto di lavoro decente, mi ritrovo in questo momento della mia vita a vendere pasta all’estero. Non mi lamento, ci mancherebbe, c’è ben peggio al mondo. Anzi, tento di prenderla con ironia e dato che la cucina e l’Italia sono cose che controllo abbastanza, mi diverso a sentirmi un po’ una Loren de noantri che dispensa consigli, gioia e pappardelle. La cucina italiana lo sappiamo, é famosissima, é conosciuta worldwide e spesso anche sognata dagli stranieri. Basta dire a un cliente che sei della provincia di Roma che partono sospiri che manco avessi detto che mi faccio la doccia tutte le mattine col Papa. «Aaaaaah…Roma, la Dolce Vita, io ci sono stato vent’anni fa e mangiai benissimo in un ristorantino che trovai casualmente in un vicolo nascosto di Trastevere…lo conosci?».

«No guarda, in realtá io sono di Viterbo, un po’ piú lontano, un po’ piú in alto di Roma..»

«…..»

«Be, andando verso la Toscana..»

«Aaaaaah, la Toscana, que bonita, la campagna, Firenze, aaah che meraviglia, la pizza, la mamma…»

Tutto meraviglioso insomma, ci mancherebbe, ci sappiamo vendere bene noi popolo di poeti, navigatori e fanfaroni. Pure troppo bene direi, nel senso che tutti adorano la cucina italiana ma pochi ne capiscono qualcosa. Ti chiedono se possono mischiare tagliatelle e rigatoni, se ci sta bene il ragú di cinghiale sui ravioli di gamberi e innaffiano qualsiasi cosa abbiano comprato col pesto. Non so se la colpa sia nostra, che a volte pur di esportare un po’ di «bella italia» imbastardiamo ricette e ingredienti o se veramente é complicato capire che non basta buttare del pomodoro a casaccio sulla pasta per mangiare come in riva al Tevere. E quando io, con dolcezza e pazienza, tento di spiegare alcune regole di base, giusto per correttezza e perché magari con gli abbinamenti giusti la cena ti piace anche di piú, mi guardano manco fossi un mostro, un nazista del raviolo ripieno. L’ultimo, dopo avermi chiesto consiglio e averlo beatamente ignorato, mi ha dato della «talebana». E’ probabile che succeda lo stesso a me quando vado a mangiare giapponese e chiedo sushi, che ne so, i giapponesi non sono famosi per protestare o spiegarti che quello che stai mangiando é un’eresia. Ecco, cari giapponesi, fatemelo sapere. Non fatemi passare per idiota.

Io intanto, continueró a spiegare che cucinando bene non si muore.

 

 

Morì nse morgherà ma le tribbole.

Dalle reti sociali si estraggono fondamentalmente tre informazioni sulle vostre conoscenze: cosa mangiano, dove mettono a mollo le chiappe in estate e quando si lasciano. Quest’ultimo evento avviene palesemente in due fasi: cambio dell’immagine profilo con una foto spettacolare che manco la copertina di Vogue seguita da innumerevoli foto di alcolici, birre e quant’altro. Subito dopo si parte a raffica con le frasi filosofico-spirituali. Quasi sempre accompagnate da romantici tramonti o boschi rigogliosi, Un’invasione di meditatori, nuovi guru e asceti, un bombardamento di frasi motivazionali degne di grandi pensatori, altro che i bigliettini dei Baci Perugina. Non so bene quando sia avvenuto questo cambiamento nell’umanità, ero convinta di vivere ancora in un ambiente altamente razzista, paranoico e spesso egoista ma pare di no..e siccome nessuno di noi è immune alla catastrofe e io non sono nessuno per criticare quello che ormai è un movimento umanitario collettivo, mi unisco alla massa, perdincibacco! E scelgo la mia frase, quella che mi darà forza ogni mattina e mi consolerà nei momenti neri. Proviene dalla saggezza popolare Viterbese e la trovate nel titolo.

Buona vita e fate pochi danni, me raccomanno.

Oh Parblé!

 

 

E’ giunto il momento di fare outing.

 

Ho preso un cane. Un elegante, stiloso e signorile levriero.

Un figlio del vento, leggero e regale. Mi sono premunita di costoso collare, guinzaglio e deliziosi sacchetti rosa con dei cuoricini. Siccome mi avrebbe guardato tutto il quartiere mi sono vestita bene, in sintonia con l’eleganza di un animale cosí delicato. Mi metto le scarpe col tacco, il cappottino e un foulard  floreale, cosí mi da un’aria da francese. Le francesi sono eleganti e chic. Una francese col cappottino e il levriero al fianco é la sciccheria delle sciccherie. E scendo in strada. L’animaletto inizia a zampettare a destra e a sinistra, non passeggia allegramente al mio fianco, il che risulta un po’ meno elegante di quello che pensavo. Inizia a tirarmi dal guinzaglio da tutte e le parti e con le scarpette col tacco  quasi mi schianto addosso a una vecchietta col carrello della spesa. «Mi scusi tanto, é piccolo». La vecchietta mi manda affanculo senza troppi convenevoli. Oh Parblé. Facciamo un piccolo sermone al pargolo, tesoro, mi sono messa il cappottino, comportati bene e cerca di fare «pendant»col mio foulard. Continuiamo passeggiando tra l’ammirazione generale, riesco anche far finta di niente mentre mi passa in mezzo alle gambe per schivare un bambino e nel bel mezzo di un marciapiede affollato come la piazza di San Pietro durante il primo Angelus del Papa Francisco, la creatura si ferma, odora un paio di sanpietrini e si sistema in una strana posizione aerodinamica. Intuisco che si tratta di cacca. Oh, tresor, fai tranquillo, intanto tiro fuori uno dei miei deliziosi sacchetti rosa coi cuoricini. Mmh, forse me ne servono due. Merda, non riusciró mai a raccogliere tutta quella cacca. Eppure sei magro come uno stecco, maledetto cane, da dove ti esce tutto questo bendiddio? Mi accuccio cercando di risolvere in qualche modo la catastrofe nucleare che il mio amichetto ha creato ma intanto lui, avendo giá finito quello che doveva fare, inizia a tirarmi insistentemente verso il parco. Con un braccio lo trattengo mentre cerca di scappare e con l’altra mano libera praticamente inizio a spalmare quello che in realtá dovrei raccogliere, i sacchetti coi cuoricini una volta ripieni sono alquanto schifosi e invece del cappottino mi sarei dovuta mettere lo scafandro. Mi strattona alla fine, corro come una forsennata attaccata a una corda con un sacchetto di merda in mano fino al parco. Ti libero un po’, dannato cane, cosí corri libero e mi lasci respirare perché ho bisogno di ricompormi. Due corse sulla terra battuta, una bevutina lla fontana, il tempo di creare una simpatica fanghiglia, inzaccherarsi le zampette e andare a saltare sul cappottino di mamma mentre con le scarpette mi pianto su un altro regalino. Capisco che é giunta l’ora di ritirarsi a casa dietro un paio di occhiali da sole e considero l’idea di cambiare quartiere. 

Adoro il mio cagnetto. Ho peró dovuto modificare un pelino l’idea del mio abbigliamento. Invece della francesina elegante adesso quando esco con lui sembro una turista tedesca in visita alla  Fontana di Trevi.  

Buona fine e buon principio.

Se sto come sto evidentemente qualcuna delle precedenti edizioni del Capodanno e le sue tradizioni non ha funzionato. Per questo stavolta le ho stravolte tutte. Iniziando per mangiare a casaccio i 12 chicchi d’uva (tradizione nettamente piú salutare delle lenticchie plus zampone a mezzanotte) e, soprattutto, non fare assolutamente nessun buon proposito per l’anno nuovo. E si che mi é costato fatica data la mia passione per le liste. Ma parliamoci chiaro, i buoni propositi per l’anno nuovo sono una cagata pazzesca che non servono a nulla. Se si rispettano durano tre settimane. Il tempo di iscriversi in palestra, comprare le scarpe da ginnastica, la maglietta traspirante, il pantalone supertecnico, la bottiglia di Gatorade, lo zainetto specifico, scaricare 9 ore di musica sull’mp3 perché passeró ore e ore correndo, il portacellulare da braccio che se non ce l’hai sei uno sfigato, andare tre volte in palestra, massacrarsi come se non ci fosse un domani, tornare a casa bestemmiando, non riuscire a muoversi per tre giorni per i crampi e decidere che magari con un po’ di riposo passa tutto, magari vado settimana prossima, si vabbé mo vado peró fa freddo, oggi piove pure, certo che peró pago per non andarci vabbé mi cancello. Questo se la lista prevede propositi pratici, tipo mettersi a dieta, smettere di fumare, bere di meno e cazzate varie. L’altra opzione sono le liste comportamentali, che di solito prevedono la modifica di una caratteristica tipica del nostro essere o piú spesso, la modifica del comportamento altrui. Nella prima categoria troviamo i meravigliosi » prendermi piú tempo per me stessa», » perdonare chi mi ha ferito», «leggere di piú»…e anche qui dureranno si e no due settimane, dopodiché torneremo tutti ad essere gli stronzi di sempre. Quelli che peró preferisco sono i buoni propositi passivo-aggressivi. Mi riferisco al » non permettere a nessun imbecille di prendermi in giro» ,  » non sopportare piú la stupiditá altrui» o » non rimanere zitta di fronte alle ingiustizie». Li trovo spettacolari e inteligenti, un po’ come quando in un colloquio di lavoro ti chiedono di descrivere un tuo difetto  e tu rispondi » Sono perfezionista. Non sopporto le cose fatte male»…….si, si. 

Perció quest’anno niente buoni propositi. Quelli dell’anno scorso infatti non sono stati rispettati. Prevedevano depilarsi con regolaritá e aggiornare piú spesso il blog.

Ops. 

Work hard

La scoperta é di quelle che ti cambia per sempre.  Ne parlavo poco tempo fa con la Selman

Essere disoccupati non é una disgrazia. Se si supera il primo momento di disperazione e panico, un secondo momento di crisi di ansia e nottate in bianco, un terzo momento di pianti e testate al muro allora ti si apre un mondo. «Non lavorare é fico». Esiste una oggettiva mancanza di liquiditá, non prendiamoci per il culo ma a quello non ho trovato soluzione. Io parlo d’altro. Parlo del falso mito che ci hanno inculcato a martellate nel cervello e che ci dice che solo  lavorando e realizzandosi nella propria professione si é felici. Solo sacrificandoti arriverai alla soddisfazione.  Alla faccia di tutti i film americani con Tom Cruise che fa la scalata al successo, non lavorare é fichissimo. Non doversi alzare per contratto, non dover andare a passare otto ore al giorno in un posto puzzoso é meraviglioso. E se proprio ti vuoi realizzare puoi comunque esercitare la tua professione come hobby a tempo perso e senza orari. Che si fottano tutte le storie sulla gavetta, la dedicazione, lo sforzo. E’ molto meglio uscire, leggere, curare le piante, passeggiare a tempo perso, cucinare senza fretta, vedersi con gli amici. Vive la liberté. Abbasso il sistema! Non avete voglia di mollare tutto? Vi ho convinti? Volete disoccuparvi anche voi?

E invece no, cari ingenuotti, perché se voglio continuare a mangiare come un essere umano e non cibarmi di bacche e radici devo tornare a lavorare. E ora con la consapevolezza che non lavorare é fico, perció due volte peggio. Era meglio quando non lo sapevo. Cazzo. 

Buongiorno un cazzo.

Odio gli esaltati del mattino. Quelli che alle sette sono già attivi, e parlano, parlano, parlano, parlano. Quelli che BUONGIORNO! uh, che faccia, abbiamo fatto le ore piccole eh sai che io sono sveglia dalle cinque ho steso i panni portato fuori il cane e fatto il soufflè ma che hai che non parli ma sei proprio messa male vuoi che ti porto un caffè?

                                                       VALIUM.

Prendete ottanta gocce di Valium e non rompetemi i coglioni. Sappiate che non siete normali. E’ fisiologicamente impossibile avere voglia di chiacchierare prima che il sole sia ben alto. Io ho seri problemi. Stamattina ho massaggiato il piede sbagliato a un paziente.

Meno male che non faccio il medico.

Quechua in my heart

E’ uscito il primo sole. Cominciamo a levarci gli strati di vestiti che c’hanno ricoperto per un lunghissimo inverno e scopriamo, con falsa sorpresa, che le nostre cicce ciondolano impietose da tutte le parti. Tra l’altro ultimamente tutti fanno sport; te ne vai passeggiando serena in direzione al supermercato a comprare le patatine e incontri almeno tre ciclisti, quattro che fanno jogging, uno che fa stretching in un angolo. Tutti sudati, sanno proprio di salute, oltre che un po’ di ascella. E allora pure io. Anche io devo essere sana e tonica. E pure voi, lo so che pensate lo stesso sgranocchiandovi quel panino con la mortadella. E cos’é la prima cosa che si fa, dopo aver scelto la disciplina?

Braaavi.

Andare al Decathlon. Se non passi prima da lí praticamente non hai iniziato lo sport. Perché si ha bisogno di qualche oggettino magari. Una scarpetta un po’ buona. E una maglietta in tessuto traspirante, con una comoda taschina per l’mp3 e buchi per far passare le cuffie. E un’altra, perché vorrai pure lavarla. E una borsa con scritto lo sport che dovrai praticare. Un pantalone, meglio due, facciamo tre. L’asciugamano, quello comodo che non accupa spazio. E i calzini. E 180 euro alla cassa non te li leva nessuno, che mentre state dentro al Decathlon vi sembra tutto necessario ma quando arrivate a casa vi rendete conto che, come diceva Nino, nu jeans e na maglietta bastava.

Ti segni il giorno di inizio sul calendario, lo dici a tutti i colleghi e agli amici, giá ti senti piú sano, piú bello, piú tonico. Compri pure il Gatorade, perché sei serio. Inizi, sudi, finisci, torni a casa, ti lavi, ti senti una dea. E il giorno dopo ti alzi con una serie di crampi che non ti permettono manco di farti il caffé.

Ok, ci abbiamo provato. Ci vediamo per una birretta?

nel lontano luglio del ’08

Mi sono lavata le mani con un sapone del ’68. Ma partiamo dal principio. Sto di nuovo facendo domiciliari. Che con queste temperature equivalgono al suicidio. Mentre nei telegiornali continuano a dire di non uscire nelle ore più calde, di evitare l’attività fisica e di mangiare frutta e verdura io vado in giro a fare massaggi. Con la macchina. Voi direte:c’è l’aria condizionata! Che ci mette dieci minuti a diventare fresca.Giusto il tempo di parcheggiare di nuovo. Al sole, perchè chi ha trovato un posto all’ombra non lo abbandona fino a Ferragosto. E i vecchietti per stare freschi se ne vanno in campagna. E valli poi tu a trovare per strade abbandonate da Dio e dal Comune, tra la tipica macchia mediterranea che si studiava in terza elementare. Voi direte: c’è il navigatore! Che mi dice che sono giunta a destinazione giusto sopra i binari del treno. O mi fa girare a destra dove c’è un grazioso campo di meloni. Ma nonostante tutto io sono sempre una signorina. E allora anche se sudo come un operaio dell’Anas e puzzo come una caciottina chiedo cortesemente ai padroni di casa generalmente centenari di potermi lavare le mani. E lì, in mezzo a bottigliette di sali da bagno ormai fusi in un unico blocco e profumi ormai ritirati dal mercato c’è il mio sapone. O meglio, la saponetta. Secca. Con delle crepe sopra che nemmeno con lo scalpello si potrebbero fare. Forse emulsionandolo all’acqua, penso, ritrova il suo potere sgrassante. Macchè. L’acqua gli scivola sopra come su un sasso di fiume, non fa nemmeno un filo di schiumetta. Credo si trovasse lì da prima della costruzione della casa. L’avranno ritrovato scavando per le fondamenta e gli è sembrato simpatico esporlo in bagno.

Saluto. Me ne vado.

La soluzione

Il problema è che se bevo spritz vedo tutto con maggior chiarezza. Voi mi direte che è per l’alcol in esso contenuto che mi ubriaca e mi fa perdere i freni inibitori e anche un po’ l’equilibrio. Potrebbe essere, non lo escludo. Se bevo lo spritz, o meglio due, vedo chiaramente cosa devo fare nella vita, il mio futuro e il mio passato e riesco anche a interpretare la fisica quantistica. Potrei passare le mie giornate a bere spritz e a dispensare consigli su come avere successo nella vita e su come risolvere il problema del surriscaldamento globale e del conflitto d’interessi. Ma ho come il dubbio che la gente potrebbe essere gelosa della mia onniscenza e di conseguenza  far circolare il sospetto che io sia sotto l’effetto del sopracitato alcol. Per questo mantengo per me questo piccolo segreto. Poi non venitemi a dire che il mondo va a rotoli. Io la soluzione ce l’avevo. Ma voi mi date dell’avvinazzata…